domenica 3 gennaio 2010

Qualunquismo e Potere di Marisa Corazzol



Il qualunquismo imperante con cui i più esprimono giudizi di politica interna ed internazionale è un preoccupante sintomo dell’atrofia cerebrale, mascherata da cultura, che il sistema consumistico e massmedialogico sta diffondendo nella società.
Il fatto che oggi tutti si sentano in grado di effettuare analisi ed esprimere giudizi sarebbe di per sé lodevole, almeno fino a quando si tratti di decidere la formazione della Nazionale di calcio.
Purtroppo a ciò non ci si limita e l’estensione di questa facoltà critica ad argomenti quali pace, guerra, alleanze, uso delle risorse, scelte economiche e politiche diviene perniciosa, giacché la somma algebrica di tali giudizi da parte degli affetti da atrofia concorre a formare quella “opinione pubblica” che va a pesare sugli esiti delle scelte finali.
Ciò non accadeva fino a cinquanta o cento anni fa (ed era peggio) in quanto la parte della popolazione che ragionava (purtroppo il più delle volte in modo egoistico) era piccolissima e la massa non era legittimata a pensare.
Ora nessuno può affermare che tra i due mali sia minore quello odierno, ma chiunque si renderà conto che la manipolazione del sentire medio da parte della tv, attraverso la presentazione mirata di certe realtà piuttosto che di altre, in fondo omologa i due diversi scenari.
Morale: la gente non sa pensare. Il semplice meccanismo di raccogliere i dati, analizzarli e poi sintetizzarli in un giudizio equilibrato, scevro da spirito di appartenenza, sembra essere ormai perduto.
Viviamo la cultura del presente, veloce, superficiale, immediato. Immagini e notizie ci bombardano come flash impazziti, rendendoci incapaci di riflettere e facendoci scegliere la parte più “empatica” e che più ci sembra coerente con i nostri interessi immediati, senza preoccuparci delle conseguenze a medio e lungo termine.
Due assunti costantemente ricorrenti mi hanno spinta a scrivere queste righe, perché sono l’icona di questo diffuso sistema di non-pensiero.
“Gli arabi hanno attaccato l’America l’11 settembre, provocando il più grande disastro della storia.
È logico e giusto che loro abbiano reagito in Afghanistan e in Iraq”.
“Dobbiamo essere riconoscenti agli americani: se non ci avessero liberato, sacrificando un milione di loro giovani vite, ora noi saremmo ancora sotto i nazisti”.
A questo punto già vedo la maggior parte dei miei pochi lettori alzare la mano, rossi di collera.
Sento chiaramente i loro pensieri: “ecco la solita disfattista antiamericana e comunista!”.
Vedo, con soddisfazione, che il qualunquismo persiste, e – se mi “consentite” – vado a spiegarmi.
Innanzitutto devo ancora “ringraziare” Emilio Fede che, in occasione della visita di Bush, liquidò il discorso che sto per fare con queste parole: “Non si capisce come mai c’è chi contesta il Presidente di un grande Stato amico che ci ha liberato e che ci assicura la Democrazia.
Del resto in tutto il mondo ci sono gli imbecilli.”
Grazie, “fido amico dei padrini”, ti restituisco “l’imbecille” e tiro innanzi.
Adoro una certa America.
Amo la California, l’aria che vi si respira. Amo la potenzialità che vi regna e che permette a chiunque di lavorare e di emergere. Amo “l’Americanità” degli americani, multietnica e multiculturale, ma che rispetta unanimemente i principi fondanti di quella democrazia. Amo i deserti dell’Arizona ed i grattacieli di New York. Amo Michael Moore e chi la pensa come lui.
Molti miei amici sono americani e sono anch’essi spietati critici di quell’America che io critico: quella provinciale, qualunquista, egoista, ottusa e assolutamente ignara della Storia e di quello che succede al di fuori del proprio giardinetto.
Quella dedita al consumismo più sfrenato, al cibo più insano e rozzo, ai pregiudizi più ottusi.
Che ha coltivato per duecento anni il razzismo e la xenofobia combattendo chiunque potesse insidiare il proprio privilegio di poter guidare un pick-up esagerato spendendo meno di un euro per un gallone di benzina.
Sgombrato il campo dalle “tifoserie” e dalle appartenenze, vado a spiegarmi e tenterò di dimostrare perché i due assunti di cui sopra contengono solo una parte della verità e meritano ulteriori riflessioni.
La riconoscenza non è una categoria della storia, ma dell’etica dell’individuo. La storia non è fatta dalla somma del sentire degli individui, ma di forze contrastanti che difendono ciascuna il proprio interesse ed il proprio potere. La politica è l’arte di armonizzare tali forze.
Giudicare i fatti storici in termini di “bene/male” è semplicemente incongruo, quindi applicare ad essa termini come la “riconoscenza” è un errore romantico. Più corretto sarebbe dire che in un certo momento storico due forze hanno avuto una coincidenza di interessi.
Coincidenza che dura per il tempo che dura: nulla quindi è dovuto quando essa cessa di incidere sul corso degli eventi.
Ci sono innumerevoli prove che la maggioranza dell’opinione pubblica americana, del Congresso, del Senato, fino a Pearl Harbour, fu del tutto contraria all’intervento in Europa a fianco degli inglesi.
Anzi bisogna riconoscere che larghi strati della finanza e dell’industria statunitensi fecero affari con i nazisti anche dopo l’invasione della Polonia, quando l’Ambasciata americana di Berlino era una fucina di business con la Germania.
Per evitare ulteriori romanticherie va detto che, contemporaneamente, le commesse dell’industria americana prosperavano con l’operazione “Rent & Loans” attraverso la quale gli Stati Uniti neutrali “prestavano” carri armati, aerei, navi e cannoni, prima agli inglesi, poi ai russi.
Occorre tuttavia riconoscere che la costante tendenza all’isolazionismo che aveva caratterizzato la condotta degli Stati Uniti fino a quel momento, perdurava nel sentire degli americani, che vedevano il problema europeo come cosa lontana ed estranea.
Fortunatamente per Churchill (e, in subordine, per noi come siamo adesso – e non per noi come eravamo allora, e cioè in centomila sotto “quel” balcone) alla Casa Bianca c’era un tal mr. Roosevelt che era dotato di grande ambizione, unita ad intuizione e senso della strategia.
Roosevelt aveva capito due cose:
• se Hitler si fosse impadronito dell’Europa e – soprattutto – della Russia, vincendo la guerra entro il 1942 – 43 e si fosse impadronito delle risorse petrolifere del Caspio e del Medio Oriente, entro il 1950 gli Stati Uniti avrebbero dovuto non solo combattere una guerra di proporzioni ben maggiori, ma soprattutto l’avrebbero dovuta combattere – per la prima volta nella storia – sul proprio suolo.
• se, al contrario, con un sacrificio relativamente basso, avesse aiutato gli inglesi ed i russi inviando in Africa ed in Europa i propri soldati, e non solo come aveva fatto fino ad allora i propri mezzi, non solo avrebbe vinto, ma soprattutto avrebbe assunto una leadership mondiale fino ad allora impensabile.
Chi conosce la storia sa perfettamente che fino all’inizio del periodo che è stato chiamato “guerra fredda” e che ha visto gli ex alleati fronteggiarsi per quarant’anni, il dominio del mondo era stato un’ “affaire” anglo-francese: fu l’intuizione di Roosevelt che portò gli Stati Uniti sul percorso che oggi li vede come unico leader globale.
Quindi Roosevelt iniziò un’azione, spesso sotterranea, che lo vide contrapposto al Senato, al Congresso e all’opinione pubblica. Tale azione si concluse solo quando i Giapponesi commisero “l’errore” di Pearl Harbour.
C’è chi sostiene che l’Amministrazione americana abbia fatto di tutto per provocare ed agevolare quell’errore e sollevare così l’opinione pubblica.
C’è chi sostiene le medesime cose riguardo all’11 settembre… Per concludere: la Storia per¬corre sentieri che sembrano improbabili, quando non misteriosi, con automatismi complessi e meccanici nei cui ingranaggi solo gli ingenui possono scorgere categorie a lei aliene come l’amicizia, la lealtà, l’etica o, appunto, la riconoscenza.
Lasciamo le visioni di quel tipo ad Emilio Fede e regoliamoci di conseguenza: giudicando in ciascun momento ed all’interno di ciascuno scenario se gli interessi di una parte coincidano o divergano da quelli di un’altra, se quello che a noi sembra “buono e giusto” trovi riscontro nel comportamento di coloro di cui stiamo giudicando l’azione, per associarci o dissociarci da ciò che stanno facendo.
Nella fattispecie, ciò che ha fatto il Governo “neo-conservative” statunitense nel tentativo di assicurarsi il mantenimento delle fonti energetiche ed il controllo degli oleodotti che le distribuiscono, nel suo tentativo di ostacolare il processo di inevitabile emersione di Cina ed India nei decenni a venire, non solo non è stato “buono e giusto”, ma soprattutto non ha coinciso con gli interessi dell’Europa e quindi con i nostri.
Dobbiamo tutti, invece, realizzare che la potenziale sostituibilità del dollaro con l’euro nel pagamento delle transazioni relative alle forniture energetiche sia stato il principale incubo dei sonni di Bush.
Il processo di spostamento ad Oriente dell’asse di influenza economica procede inesorabilmente e questo secolo vedrà inevitabilmente la Cina come protagonista.
Quindi svegliamoci dai sogni ed iniziamo a giudicare con correttezza di termini.

E la riconoscenza dedichiamola non “all’America”, ma solo a quelle legioni di ragazzi americani ignari che riposano sotto le croci bianche di cimiteri come quelli di Anzio e di Nettuno.

Ed anche a quegli oltre mille mandati a morire da un esaltato incosciente in terra mesopotamica.
Personalmente, ad uno ad uno.