mercoledì 6 gennaio 2010
Luigi de Magistris:
Una nuova alleanza con i movimenti civili
Ieri alle 19.51
dal numero di Micromega
del 31/12/2009
Il momento storico che l’Italia sta vivendo credo sia uno dei più difficili dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Finita la stagione delle passioni civili della fine degli anni ‘60 e degli anni ‘70, dei quali nell’immaginario collettivo pare sia rimasta in eredità – purtroppo - solo la deriva terroristica, si é cominciato ad insediare nel Paese la sub-cultura videocratica del berlusconismo.
Con gli inizi degli anni '80 scompare la questione morale come baricentro dell'agire politico. I poteri forti, espressione di un capitalismo fondato sulla teoria del consumatore universale, impongono un modello di vita che oggi é divenuto dominante. Il raggiungimento del profitto senza regole, che avviene in spregio al principio della libera concorrenza, diventa obiettivo della politica e dell'impresa. L'avere comincia a conquistare il predominio sull'essere. Il merito progressivamente cessa di essere l'architrave del processo di formazione della classe dirigente, non solo di quella politica. Si inizia a formare una nuova classe di mercanti, politici e faccendieri che praticano la dissoluzione dell'etica pubblica.
La nascita, in questo periodo, di forti imperi economici si deve in buona parte anche ai capitali mafiosi ed al riciclaggio del denaro sporco.
Gli anni '80 si caratterizzano per le convergenze parallele tra mafia e politica. E' il periodo in cui si consolida il potere della DC e del PSI e la loro capacità di tessere rapporti anche con ambienti della criminalità organizzata. Nello stesso tempo alcuni imprenditori cominciano – per mezzo di legami corruttivi con la politica - a fondare le loro fortune. E' il caso di Berlusconi, ma non solo.
La scoperta della P2 interrompe la progettazione di un disegno golpista ed autoritario che conduceva a dissolvere la democrazia nel nostro Paese.
Tra gli inizi degli anni '80 e gli inizi degli anni '90 nella politica italiana si consolida il malaffare che conduce, poi, alla deflagrazione del sistema con Tangentopoli. Implode un mondo reificato di rapporti illeciti tra politica ed impresa. L'Italia era un Paese che in quei dieci anni era "cresciuto" con un sistema corruttivo che rappresentava la spina dorsale dello pseudo-sviluppo capitalista nostrano.
Agli inizi degli anni '90 non vi é solo Tangentopoli, ma anche il progetto eversivo della mafia che mette in ginocchio il Paese, per trattare con la nuova politica ed avviare il suo processo di trasformazione in mafia-governo e mafia-impresa. La criminalità organizzata non si accontenta più di avere referenti più o meno affidabili all'interno delle Istituzioni, ma pretende di contribuire a governare il Paese nell'economia, nella finanza, nella politica e finanche nelle Istituzioni.
In questi anni si consolidano anche le nuove forme di corruzione, con quest’ultima che non si realizza più, tendenzialmente, per mezzo di valigette cariche di soldi o mazzette di banconote, bensì attraverso la concessione clientelare di incarichi pubblici, posti nei consigli di amministrazione di partecipate pubbliche, ruoli di vertice nelle amministrazioni, allocazione di poste in bilancio, consulenze. E' la cosa pubblica che diviene oggetto del mercimonio da parte di chi la dovrebbe rappresentare.
Un sistema corruttivo che passa, soprattutto, per la gestione illecita della spesa pubblica e che elimina la conflittualità tra imprenditori e politici, uno dei motivi che hanno contribuito a generare Tangentopoli. La torta economica è grande e può essere co-gestita, tutti possono attingere alle risorse pubbliche. Non c'é motivo per litigare. La politica diviene classe, in quanto fonda parte delle sue fortune sulla gestione illegale di questo tesoro che dovrebbe essere comune. La politica che diviene affare assume anche una connotazione classista che non dovrebbe esserle propria.
E´ su questo terreno che si realizza la gestione compartecipativa del potere da parte anche di forze del centro-sinistra, in particolare penso al PD, in vaste aree del Paese.
Negli ultimi quindici anni questo sistema torbido si é consolidato costantemente tanto che la criminalità organizzata oggi controlla parte consistente del prodotto interno lordo nazionale e condiziona una fetta non trascurabile della “cosa pubblica”.
In questo sistema il berlusconismo ha trovato terreno fertile per alimentarsi e diffondersi: prima cavalcando l'onda populista anti-partitica del periodo di Tangentopoli, poi divenendo il peronismo del terzo millennio. Regime autoritario che, oggi, in Italia si sta realizzando completamente e che vede la violenza morale e della carta da bollo prendere il posto di quella fisica. Lo squadrismo dei berluscones alla Cicchitto che rappresentano la frangia più eversiva del golpismo in atto.
Questo peronismo di matrice piduista che si vuole compiutamente introdurre nel nostro Paese è certamente polimorfo, manifestandosi con tanti volti.
La concentrazione del potere in pochissime mani, sfruttando magari il collante dei poteri occulti che non guastano mai nel disegnare le nuove tecniche di regime.
La legittimazione del potere deve essere garantita dall'elezione diretta da parte del popolo del Capo: il ritorno del Furherprinzip di novecentesca memoria, che ha legittimato le leadership del “Secolo breve” giustificando ogni scelta del potere, anche la più abominevole e arbitraria, in virtù di un mandato popolare plebiscitario usato come alibi. Per ottenere questo risultato uno strumento prezioso è il controllo sempre più ferreo dei mezzi di comunicazione. L'informazione eterodiretta garantisce al regime di accrescere il consenso e di produrre campagne mediatiche fondanti per la costruzione di coscienze drogate e narcotizzate, utili per esser manipolate a fine politico-popolustico.
Il regime deve, poi, realizzare il dissolvimento degli organi di garanzia, di tutti gli organi di garanzia, e compromettere l’equilibrio dei poteri che fonda la società contemporanea.
Dalla magistratura autonoma ed indipendente alla libera e plurale informazione, dalla Corte Costituzionale al Parlamento, dal Consiglio Superiore della Magistratura allo stesso Presidente della Repubblica. Il sovvertimento dell'assetto democratico del nostro Paese attraverso l'abuso del diritto, il diritto illegittimo, la legislazione ordinaria. Questi sistemi autoritari hanno bisogno della legittimazione formale, dell'apparente rispetto delle norme. Il maglio autoritario è tanto più efficace quanto se sancito da norme. E' l'autoritarismo del normale, la normalizzazione come sovrastruttura sistemica.
Questo smantellamento della forma di Stato e di un'idea di Nazione come delineato dai Costituenti produce lo sgretolamento della democrazia.
Il disegno autoritario trova un forte substrato anche nel dissolvimento della cultura nel nostro Paese. L'impoverimento del dibattito culturale e l'imposizione di una sub-cultura sono la linfa vitale del nuovo peronismo. Così trionfa la tv commerciale che ci bombarda con il suo sistema di (non) valori: le veline (cioè il corpo esibito come merce e come merce offerto, proposto come unico mezzo per un’ascesa fondata solo sull’apparire), il successo come esclusiva conquista economica, la vita come unicamente finalizzata ad attuare il modello del “produci-consuma-crepa”, si diceva un tempo.
La meritocrazia, basata sullo studio e sul sacrificio culturale, sull’impegno intellettuale e sulla formazione, sulle braccia di operai e contadini, è screditata e ridotta quasi ad anti-valore, bollata come antica e superata, considerata superflua oltre che inutile, probabilmente anche ridicola.
Il peronismo del terzo millennio acuisce le disuguaglianze sociali, precarizza il lavoro, ostacola ogni forma di redistribuzione del reddito.
Di fatto produce un aumento considerevole del conflitto sociale, in qualche modo lo alimenta affinché possa essere anche strumentale a campagne tese a demonizzare le opposizioni sociali e politiche e così azzittire qualsiasi voce che spezza il coro monocorde del sovrano autocratico.
Il sistema castale al governo da anni - che ha perso il legame con il popolo che ha sete di giustizia - non intende affrontare gli snodi della crisi economica e del lavoro perché un superamento delle logiche del liberismo senza regole e del capitalismo senile porterebbe allo scricchiolamento del regime.
La maggioranza peronista che governa il Paese tende chiaramente a criminalizzare ogni forma di dissenso, indicare come sovversivi coloro che cercano di praticare ideali di giustizia e di uguaglianza, minacciare la repressione per spaventare le crescenti coscienze critiche.
L'uso della repressione illegale ed indiscriminata è stata già praticata anche in un recente passato, è evidente che il regime non tollera il dissenso ad un sistema di potere che si fonda molto anche sull'ignoranza dei fatti da parte delle persone. Ecco perché il sistema ha paura che i fatti si conoscano: una loro corretta conoscenza produce pensiero critico e libero, e questo pensiero critico e libero è il volano per il dissenso e per una sana e pacifica ribellione sociale e culturale.
Il regime, che trova sostegni anche in aree non residuali del centro-sinistra, teme la rivoluzione culturale. Teme la pratica del dissenso non violento e fondato su valori forti. Il regime teme l'espressione più nobile della democrazia: la difesa e l'attuazione della Costituzione come emblema della giustizia e del diritto, come modello di un’umanità coraggiosa, libera e cosciente.
Penso che il No Berlusconi-day non possa essere ridotto alla mera richiesta di dimissioni dell'espressione apicale del regime, di colui che ne incarna simbolicamente le sembianze più efficaci e evidenti: Silvio Berlusconi.
Il 5 dicembre in piazza si é manifestato contro il disegno autoritario ed in difesa della democrazia. Si é manifestato contro la plutocrazia e contro l'opulenza di regime. Si è manifestato per l’attuazione dell'art. 1 della Costituzione, quindi contro la precarizzazione del lavoro e in favore del diritto di tutti ad un’occupazione sicura e retribuita in modo giusto. Si é manifestato in favore dei più deboli, di quanti sono costretti ad essere residui sociali dei banchetti consumistici. Si é manifestato per i diritti dei migranti duramente colpiti da leggi razziste contrarie al diritto internazionale, oltre che all’umano sentire. Si é manifestato per la sconfitta della politica come classe autoreferenziale di professionisti. Si é manifestato contro la criminalità organizzata e contro la presenza delle mafie nelle Istituzioni.
Si é manifestato a sostegno di una istruzione pubblica che si sta cercando di smantellare. Il motore è stato il desiderio di una rivoluzione dei cuori e delle menti pacifica e non-violenta.
Quel giorno una parte del Paese ha partecipato. Ha pensato che valesse la pena praticare la contaminazione sociale. Mettere insieme pensiero ed emozione. Accendere i cuori, alimentare le passioni. Contribuire a formare un laboratorio politico attraverso la Rete e la partecipazione di piazza, la libera circolazione delle idee su Internet, con la gioia del ritrovarsi fisicamente insieme, in una mescolanza di virtuale e reale inedita.
E' stata una grande giornata politica perché politica è stata quella piazza. Nel senso nobile e greco del termine. Questa grande giornata di pace e di democrazia fa paura al regime ed alla casta, che hanno tentato da subito di criminalizzarla utilizzando lo squadrismo verbale, l’intimidazione di quanti si avvicinano ai movimenti, la delegittimazione dei politici che vogliono il cambiamento. Ci vogliono fermare ma non dobbiamo aver paura: la storia insegna che di fronte alla coscienza ed al sogno che si fanno massa, il regime non può niente, anche quando sceglie di utilizzare la violenza fisica e servirsi della strategia della tensione.
Di fronte al peronismo di una classe politica corrotta e fortemente intrisa di mafiosità bisogna pensare ad un grande progetto politico.
Piazza San Giovanni é stato un momento importante di un laboratorio politico che si sta realizzando nel Paese.
Fondamentali sono, credo, alcuni passaggi.
In primo luogo, i partiti che intendono veramente cambiare la politica nel nostro Paese, passando dal classismo castale alla Politica quale luogo per la realizzazione del bene collettivo, devono dotarsi al più presto di una rappresentanza all'altezza di un progetto che non penso sia riformista, ma rivoluzionario. Pacifico, non-violento, ma rivoluzionario.
In questo senso occorre un passo indietro da parte della classe politica che deve rinunciare all’idea che essa sia impresa e affare per pochi tecnici razionali, per lasciare spazio all’insegnamento weberiano del “Politik als Beruf”, della politica come professione-vocazione, dove chi si impegna in questo campo deve dimostrare, sostiene sempre Max Weber, le doti della passione, della lungimiranza e del senso della responsabilità.
Un insegnamento in Italia rimasto in troppi frangenti disatteso.
Non vi é dubbio che chi ha partecipato fattivamente alla manifestazione (IDV e sinistra plurale) ha dato un forte segnale in questa direzione, dimostrando la propria disponibilità a farsi permeare dalla società civile, così desiderosa di prender parte.
La radicalità dei progetti di cui si sente il bisogno nel Paese passa, però, anche attraverso il coinvolgimento di quella parte dell'area moderata ed autenticamente liberale che non si riconosce nel capitalismo senile e nello stravolgimento dello Stato Sociale di diritto, che guarda alla trasparenza della politica e sente ancora come un impegno l’antica e attuale “questione morale”.
Non dimentichiamoci che la difesa e l'attuazione della Costituzione quale laboratorio politico passa anche attraverso sensibilità e culture diverse.
Le stesse sensibilità e culture diverse da cui nacque la nostra Carta, figlia delle migliori energie democratiche nazionali vincitrici del nazi-fascismo.
Credo si debba pensare ad un grande progetto politico che unisca queste forze e le spinga ad avere l'ambizione di cambiare finalmente il Paese.
Si deve stringere un forte patto tra la politica della rappresentanza e la democrazia partecipativa perché entrambe, singolarmente, non possono arrivare alla meta. L’una perché si inaridisce nella sua chiusura dorata, perdendo il contatto fondamentale con la società e le sue esigenze, l’altra perché rischia di scivolare nella sola testimonianza, priva di incisività reale e potere decisionale.
Il patto deve basarsi su alcuni principi fondanti che si ritrovano nella Costituzione.
La lotta per i diritti é il baluardo dell'azione politica.
La lotta per i diritti civili e per il rispetto delle pari opportunità senza discriminazioni sessuali.
La lotta per il lavoro come diritto di tutti ed a tutti garantito, senza il giogo di una precarietà che rende impossibile la progettazione del futuro e che riduce il futuro ad angosciante cono d’ombra.
Le battaglie per la difesa dell'uguaglianza giuridica e l'attuazione dell'uguaglianza sostanziale.
Il contrasto al razzismo ed alla xenofobia e ad ogni forma di discriminazione per una società che includa, unico modo per garantire la sicurezza collettiva e non giustificare l’operazione propagandistica di ronde e militarizzazione del territorio.
La lotta all'evasione fiscale e per una rilevante redistribuzione dei redditi attraverso politiche economiche alternative a quelle praticate da chi intende favorire i più ricchi. Nuove politiche di bilancio che consentano di allocare le risorse pubbliche in maniera differente: verso lo sviluppo compatibile con l'ambiente, che passi per il sostegno alle fonti energetiche rinnovabili, per la valorizzazione della natura, dell'arte e della cultura, sacrificando il dispendio economico per le politiche militari di aggressione e preferendo l’investimento in ricerca e formazione.
La natura non deve essere violentata ma é il luogo in cui si manifesta la vita e dove si realizza lavoro e prosperità.
Credo sia fondamentale l'alleanza tra i partiti ed i movimenti, le associazioni, le reti, le molteplici realtà del mondo laico e cattolico.
Non dobbiamo fare l'errore di dividerci, di spaccare il capello in quattro, di trovare la pagliuzza senza pensare al regime che ci vuole distrutti.
Se non agiamo subito la capacità di penetrazione di questo sistema mafioso invaderà totalmente le Istituzioni e corroderà dall'interno quegli anticorpi ancora vitali. Adesso il regime sta puntando a rendere l’informazione progressivamente più servile e vorrebbe ridurre la magistratura ad articolazione togata del potere autoritario, magari colpendo quei magistrati impegnati in indagini delicate proprio sul rapporto che questo potere ha costruito con il crimine organizzato in un passato troppo recente.
Così giornali e tv eterodiretti propaganderanno le inchieste sui dissidenti, gli arresti di immigrati, le imputazioni nei confronti di chi osa opporsi al regime. Ci potremmo ritrovare con stampa e magistratura non più libere, ma di regime. Segnali ne abbiamo.
Il tempo sta per scadere.
Credo che le formule per stare insieme possono essere diverse, purché si evitino inutili leaderismi egoistici ed atteggiamenti egocentrici.
Una formula possibile è quella di aprire i partiti agli italiani di valore, come fatto da IDV e da Di Pietro sino ad ora.
L'altra - che non è alternativa - é quella di inaugurare un dialogo costruttivo con la realtà dei movimenti che si devono incontrare tra loro e darsi anche delle forme di organizzazione e rappresentanza.
Senza organizzazione le battaglie non si vincono. Il rischio è che il sano spontaneismo disperda il suo potenziale e le battaglie pacifiche non si vincano. Un patto tra l'alleanza dei partiti che vogliono questo cambiamento ed il mondo plurale dell'associazionismo.
Un altro aspetto che trovo assolutamente rilevante è che questo patto tra la politica rappresentata nei partiti o nelle Istituzioni e la democrazia partecipativa - quella che la vulgata peronista definisce antipolitica – elabori formule innovative per la designazione e la formazione della nuova classe dirigente.
Penso alle manifestazioni, ai seminari, ai momenti culturali, alla Rete, penso ad un ritorno alla politica assembleare che sfrutti il prezioso strumento del web. Non possiamo, infatti, fermarci alla politica delle tessere e ad una dirigenza legittimata solo dai pacchetti di voti.
La designazione della leadership con metodologie di tipo tradizionale non va demonizzata, ma appare una formula stantia o, meglio, non esaustiva.
Creiamo dei momenti di incontro dove costruire il cantiere, dove consolidare il laboratorio politico.
Dimostriamo che sappiamo unire il Paese, in modo diametralmente opposto a come il crimine lo ha unito negli affari illeciti.
Partiamo dallo scrivere insieme un grande progetto politico, connettiamo le reti presenti sul territorio e su Internet.
Facciamo informazione in modo orizzontale.
Impegniamoci ed abbandoniamo i salotti ed i luoghi comodi.
Nel consolidare la resistenza costruiamo anche l'alternativa di governo perché l’opposizione al regime non sia un vezzo, ma abbia capacità concreta e sappia misurarsi con la possibilità di guidare il Paese.
Lanciamo la sfida anche alla parte migliore del PD, a quei dirigenti stanchi del sistema castale e di un certo ammiccamento al berlusconismo che pure ci sono stati in questi anni. Pensiamo alle risorse straordinarie che praticano i luoghi di quello che é stato il più grande partito della sinistra.
Costruiamo finalmente un progetto che sia di sinistra e, poi, anche di centro, cercando una connessione con quel mondo cattolico che guarda alla laicità dello Stato, al pacifismo, al garantismo dei diritti. Privilegiamo le persone rispetto alle loro appartenenze.
Senza “inciucismo” opportunistico, ma con l’intelligenza di capire che i muri ribaltati possono diventare ponti, che le differenze spesso sono sfumature, che l’accordo politico, pur da prospettive diverse, si deve trovare sui contenuti, sui programmi, sugli obiettivi sociali, politici e economici da perseguire. Ovviamente sempre avendo come criterio di dialogo l’invalicabile e irrinunciabile confine della questione morale: la trasparenza di chi riveste ruoli politici o aspira a farlo, che non si esaurisce nella fedina penale linda (pure indispensabile), è infatti la base per poter godere di quella credibilità e di quella fiducia che la collettività concede nel riconoscere ruoli di responsabilità pubblica. Del resto, il popolo sempre più guarda le persone per quello che hanno fatto nella vita, alla loro storia, al fatto che non si sono piegati al puzzo del compromesso morale.
Il nostro Paese ha bisogno di tanti italiani dalla schiena dritta.
Sporchiamoci tutti le mani dimostrando che il sogno di un’Italia libera, pulita, onesta è un’utopia concreta che possiamo realizzare. E’ necessario lavorare oggi, l’Es ist Zeit non accetta rinvii.
Non solo perché il berlusconismo è un modello in crisi, alla fase autunnale del suo golpe, quindi ancora più preoccupante e pericoloso, ma anche in prospettiva futura: finito Berlusconi, non tramonterà automaticamente la sub-cultura politico-morale che ha imposto per decenni al Paese, infettandolo nel profondo.
Sarà per noi un’eredità difficile da smaltire ma di cui dobbiamo occuparci adesso.
Luigi de Magistris
martedì 5 gennaio 2010
Sonati e non sonetti....... di Mariangela Montinaro
IGNOBILI VERSI DEDICATI A COLORO CHE HANNO IN MANO
IL DESTINO DEL NOSTRO TRISTE PAESE
Berlusconi Silvio,
il Sommo:
"Satiro narcolettico
abusiva opulenza
monopolio cosmogonico
sempiterno spergiuro".
Fini Gianfranco,
la Forza della Gratitudine
"Pavido coraggio,
mutevole coerenza,
inane dibattersi
da invincibile giogo,
incessante peregrinare
tra dignità e potere"
Minzolini:
Seppia ipotricotica
mare di melma putrida
scia lumacheggiante
memento di un perenne leccare
Brunetta Renato,
Ministro di buone maniere:
"Quasimodo iracondo
progenie di matrigna Natura
disarmato pugnante
nella Tua cosmica vendetta.
Gasparri Maurizio,
horribile visu:
Palpebra ipertrofica
neurone asfittico
acritico latore
di imperituro servilismo
Ignazio La Russa, Nume della Guerra
Nel luciferino guizzo
dei tuoi occhi assatanati,
nella risata becera della tua bocca sguaiata,
nei tuoi modi di maschia rudezza intrisi,
vedo e vedrò sempre,
del fascista lo stampo ignobile.
Vittorio Feltri,
Arbiter Elegantiarum
Deh, Vittorio, ti si
strozzasse il nodo,
bignè di tua cravatta,
ché dal naufragio del lodo,
sei ancor più vil ciabatta !
Mara Carfagna,
Venere Spiritata.
Splendida ninfa,
di poco vestita,
roride carni,
donate all'Augusto,
parole stentate,
dalla tua bocca d'oro.
Angelino Al-Fano:
Misconosciuto querulo
di nullità coltre
vendesti l'occhio pendulo
pur di approdare oltre
ma ognor il vil pedaggio
ricade sui tuoi lombi:
divieni umile paggio
perchè Silvio non ti trombi!
Bondi Sandro,
Ospite all'Infedele:
"Inverecondo sbavare
battito di ciglia di chi mente
immondo mollusco tremebondo
pallore translucido
del tuo viscido vagare..."
Capezzone Daniele
(la donna è mobile)
"Impavido mentòre
soperchia sottomissione
rosseggiante foglia morta
che va con l'andar del vento"
In dipartita di Francesco Rutelli,
Inutile Orpello
Mutevole ricciolo,
di tua perdenza tronfio,
ci lasci percorrendo
strade bianco fior.
Beltà ti abbandona,
senza alcun rimpianto,
così pur noi,
policromatico amorfo.
Per la nascita
di Raffaele Fitto,
l’Insulso Infante.
Mirate, potenti,
il bamboccion vagisce,
cullato dal defunto paterno
orgoglio di diccì.
Pargoletto,
non scrollar la tua zazzera,
non atteggiar le labbra a broncio,
Silvio t’ama, seppur ti scaricò.
Alessandra Mussolini:
Inurbana progenie
di stirpe innominabile
in tua vece è auspicabile
un'invasion di tenie!
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A Quagliariello,( radicale pentito) Nel partito radicale milistasti
e per mangia preti ti spacciasti.
D'improvviso la folgorazione in quel di San Martino
e lesto ti accodasti al partito del predellino.
A quella di un servitor cortese la tua faccia s'attaglia,
dopo l'ignobile salto della quaglia.
Luca Nesta & Giovanni Carullo
giurò la Santanchè
(santa", ma de che?!)
il dì ch'Ei rinnegò.
Da ultimo che accade?
(e la notizia è ghiotta)
Ella già vil...barzotta
un Ministero invade.
Oh Fenice rinata!
La carica è assai densa!
Ognun villano pensa:"alfin gliel...'avrà data" ( di Maria Chiara Aniballi)
Nicolo' Ghedini,ventre pregno
di legittimo impedimento
Gia' urlavi “ma va là”
per zittir Di Pietro,
quando la consulta ti irrito' il di dietro.
Gavetta da fascista
ti ingraziasti il piduista,
codice alla mano
difendevi il gran Sultano,
"primus super pares" lo spacciasti,
giocando a Pecorella ti immolasti
per salvare il lodo Alfano
prima che la Corte si voltò di deretano.
"Ma va là", "ma va là"
purtroppo sei ancora qua,
novella madre di un legittimo impedimento,
il tuo ventre è in gran fermento :
perdi nei tribunali e cachi in parlamento.
Sol il grande Nano ti giudica un gran portento.
Luca Nesta & Giovanni Carullo
Lamentazione sull'Urna (elettorale) di Massimo D'Alema
Oh Gallipoli! Gallipoli!
Terra iniqua,
che allo spoglio dei voti
ci hai dato Lui,
baffo protervo,
macchinator d'ogn'ora.
Non potevan le tue grazie
partorire un leader
degno di tal nome?
S'appresta oggi Massimo
a tessere l'inciucio,
col sempiterno amico,
bicameral compagno,
che provvido elargisce
e immune resta in cambio. ( di Mariangela Montinaro)
Paolo Bonaiuti, servitor fedele:
Languido Arlecchino
servo di un sol padrone
al quale ogni mattino
porgi le terga, prone
al capezzal di Lui
rechi or le tue giornate
nei tempi che son bui:
arrivan le mazzate! (di Maria Chiara Aniballi)
Trent'anni di civiltà .
Legge 180. di Gloria Gaetano
Ieri alle 18.23
La legge 180, venuta dopo quella sul divorzio e prima della 194, è il prodotto e l’eredità di un’epoca. La perfetta rappresentazione. Non per nulla oggi ci sono segnali di un ripensamento di queste leggi è un gesto politico che tende a cancellare la cultura che queste leggi rappresentano. Secondo Sarkozy ‘Il 68 ha sostituito il dovere con il diritto’, spostando il tasto sull’egoismo’. Quale maggiore senso del dovere di quello che immagina di poter sovvertire i concetti stessi di sanità e malattia, normalità e mostruosità? Ci fu un grande spirito di dedizione perché un gruppo di psichiatri pensasse di far accettare come persone i ‘casi’ che si presentavano, per vedere l’uomo e non il folle, per curarlo invece di cancellarlo, relegarlo o medicarlo e bombardarlo di elettricità. La legge venne approvata nel 78. Era l’anno del delitto Moro, della legge sull’aborto, del delitto Impastato. Terrorismo, mafie e battaglie civili.
L’Italia era un paese che riusciva,nonostante tutto, a guardare oltre.
Chiudere fuori l’inferno. Oppure rinchiudendolo dentro; ma comunque questa situazione necessita di una porta, per separare se stessi dai dannati. Eppure c’è un altrove che sta oltre la soglia, un altrove in cui s’incontra anche un altro, proprio quello che ,nell’inferno di Sartre (l’enfer c’est les autres), ci obliga allo sguardo impietoso dell’altro che osserviamo e che ci osserva, che sarà contaminato dalle nostre emozioni e convinzioni, ridotto alla fotografia di una realtà molto molto soggettiva.
Disrtruggendo il pregiudizio manicomiale, il nostro paese rinunciò al controllo sociale favorendo il principio della volontà e della dignità della persona, della sua psiche, che malata o sana, ha un suo stato,che, in quanto stato, può essere transitorio.
Il 13 maggio 1978 si scrisse il finale di una favola triste e dolorosa, piena di mostri e di streghe, di incantesimi e di prigioni.
Come ogni favola si conclude con la vittoria del bene, della libertà e dell’amore.
Il cittadino, malato di cancro o di depressione, è e resta un cittadino, una persona, un individuo che come tale merita di essere trattato.
Perché rinchiudere la porta?
Dai ghetti per gli appestati ai conventi, alle case della misericordia per gli straccioni e i miserabili della terra, ai manicomi e quindi agli ospedali psichiatrici, l’unico comun denominatore è l’esigenza di allontanare dal restere del mondo l’individuo, che con la sua sola presenza, provochi alla comunità ‘perbene ribrezzo, fastidio, forse contagio.
I manicomi erano istituzioni utili all’ordine costituito, il potere aveva necessità di un luogo sicuro in cui rinchiudere non soltanto il ‘reo’, ma anche che ,nel suo modo di esistere , costituiva per se stessa un rischio e una vergogna.
Ma la legge, questa legge, come uno scudo può proteggere tutti dagli errori che una scienza, con ancora tante domande aperte e troppe incertezze , potrebbe produrre. Nel 1978 la 180 cominciò a svolgere questo ruolo chiudendo per sempre le porte dei manicomi.
Non apriremo quella porta mai più. Siamo tutti fuori da 30 anni, ed è ancora qui, in questa dimensione e con gli str, in uno spazio nuovo: è nel territorio che medici e infermieri dovranno scegliere un nuovo ruolo, non più contenitivo e controllante ma operativo e propositivo, terapeutico, la società non potrà più pensare di risolvere con un muro la diversità non accettata. Per le persone cosiddette ‘malate’ c’è il percorso della de istituzionalizzazione, il senso del tempo personale e sociale, riprendendo in mano la propria vita, la propria identità personale e sociale, per sperimentare la scelta del sonno e del divertimento, dell’impegno e dello svago, dell’igiene personale e della creatività e tutto questo assumerà forma fuori dalle mura.
E’ per questo che gli operatori medici e sociali, insieme con le famiglie dovranno inventarsi 'progetti di vita', percorsi di inserimento, un diverso modo di avvicinare la persona con difficoltà, di proporgli spazi e modi, regole e divertimenti, impegni e tempi di libere attività. Tutto dovrà essere presentato come gradevole e accettabile, diverso da quella vita che li ha feriti e spaventati. La sfida è lanciata. I medici, che in questo caso devono curare diversamente, sono impegnati in un percorso terapeutico più propositivo e alla fine gratificante. Perché nelle persone con disagio psichico, anche nel loro delirio, c’è tanta fantasia, creatività e amore che vanno solo incanalati bene.
Tutti fuori: medici, pazienti, familiari,infermieri, volontari, assistenti,educatori, 'normali', diversi, politici, amministratori. Siamo tutti fuori, fuori come balconi protesi verso la strada a seguire il corso degli eventi, a sopportare le intemperie dei corsi e ricorsi storici. Siamo qui, dopo 30 anni, a parlare di malattia mentale, disagio psichico, follia, siamo una promessa o forse un'utopia per il mondo intero. Da questa posizione privilegiata possiamo solo guardare al nostro futuro, vivere è un processo temporale irreversibile, tornare indietro è impossibile, progettare un ritorno al passato è contro la storia.
Ci resta il futuro e il futuro è adesso. Il disagio psichico è una posizione scomoda, per sua natura ambigua e indefinita, come lo sono i colori dell'alba e del tramonto che si confondono e ci confondono.
E ci emozionano. lasciandoci a volte senza fiato per la gioia o per il dolore: un giorno che nasce o un giorno che muore, normalità o diversità, salute o malattia.
E' difficile, ma è possibile.
Ci vuole ricerca, passione, attenzione, studio, disponibilità e un pizzico di creatività.
Non è una prova degna di individui civili, evoluti, e capaci?
Ne vale la pena.
dopodinoiwodpress
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La legge 180, Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, del 13 maggio 1978, meglio nota come legge Basaglia (dal suo promotore in ambito psichiatrico, Franco Basaglia) è una nota e importante legge quadro che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. Successivamente la legge confluì nella legge 833/78 del 23 dicembre 1978, che istituì il Servizio Sanitario Nazionale.
La legge fu una vera e propria rivoluzione culturale e medica, basata sulle nuove (e più "umane") concezioni psichiatriche, promosse e sperimentate in Italia da Franco Basaglia.
Prima di allora i manicomi erano poco più che luoghi di contenimento fisico, dove si applicava ogni metodo di contenzione e pesanti terapie farmacologiche e invasive, o la terapia elettroconvulsivante (che per alcuni casi viene tuttora utilizzata).
Le intenzioni della legge 180 erano quelle di ridurre le terapie farmacologiche ed il contenimento fisico, instaurando rapporti umani rinnovati con il personale e la società, riconoscendo appieno i diritti e la necessità di una vita di qualità dei pazienti, seguiti e curati da ambulatori territoriali.
La legge 180 demandò l'attuazione alle Regioni, le quali legiferarono in maniera eterogenea, producendo risultati diversificati nel territorio. Nel 1978 solo nel 55% delle province italiane vi era un ospedale psichiatrico pubblico, mentre nel resto del paese ci si avvaleva di strutture private (18%) o delle strutture di altre province (27%)Di fatto solo dopo il 1994, con il Progetto Obiettivo e la razionalizzazione delle strutture di assistenza psichiatrica da attivare a livello nazionale, si completò la chiusura effettiva dei manicomi in Italia.
lunedì 4 gennaio 2010
"Superior stabat lupus
La bugia ha le gambe corte.
Il presidente del Consiglio ha usato una telefonata al TG1, ospitale come un "house organ", per condannare “la fabbrica di menzogne, di estremismo e anche di odio” che in Italia alimenta, a suo dire, gesti violenti e insani come quello subito da Benedetto XVI nella notte di Natale e, per agevole simmetria, quello a lui stesso inflitto, giorni fa, in piazza Duomo a Milano.
Naturalmente la disavventura del Papa, al quale Silvio Berlusconi, in mancanza d'altre consonanze, si sente affine, non ha nulla a che vedere con il clima politico italiano, perché l'assalitrice di San Pietro, una persona disturbata quanto quella che aveva ferito il premier, viene dalla Svizzera, dove non ci sono giudici politicamente motivati, complotti ai danni di magnati dell'informazione, sinistre ancora nostalgiche del comunismo, mafiosi che collaborano con la giustizia, e via elencando. Ma il fatto che le bugie abbiano le gambe corte, nell'odierna politica italiana così credulona, conta poco: attribuire al nemico le proprie intenzioni, cioè la “campagna d'odio”, è lo strumento numero uno della propaganda.
Da almeno duemila anni: per ricordarlo ci basta Fedro, il favolista, senza invocare il suo più celebre contemporaneo, insuperato narratore di parabole evangeliche.
“Superior stabat lupus, longeque inferior agnus”. In riva a uno dei più famosi torrenti della letteratura d'ogni tempo, scrive Fedro, il lupo era in alto mentre l'agnello stava molto più in basso. La sete li accomuna, ma il lupo ha soprattutto voglia d'attaccare briga: perché, chiede dall'alto, intorbidisci l'acqua che sto bevendo, “turbulentam fecisti mihi acquam”?
Com'è possibile, ribatte l'agnello, se l'acqua viene da te alle mie sorsate, “a te decurrit ad meos haustus liquor”? Già, la scusa dell'acqua non sta in piedi, ma il lupo, forte dei suoi mezzi, ne ha subito pronta un'altra: tu hai parlato male di me, “ante hos sex menses ”, sei mesi fa!
Ma neppure questa funziona: a quell'epoca, si trincera l'agnello, non ero neppur nato. Adesso basta con questi cavilli, “fauce improba incitatus”, sbotta il lupo: “Pater, hercle, tuus male dixit mihi”.
Per Ercole, allora è stato tuo padre a parlare male di me. E con un balzo salta sull'agnello e gli dà morte ingiusta, “iniusta nece”, offrendo a Fedro il destro per la morale: “Questa favola è scritta per gli uomini che opprimono gl'innocenti con falsi pretesti”.
Ora, questa favoletta morale fa al caso di Berlusconi non per l'eventuale morte di un innocente, visto che d'agnelli incolpevoli è assai carente la nostra povera Italia. La profonda verità sta in quell'inciso, “fauce improba incitatus”, che Fedro butta lì come motivazione recondita del lupo, “spinto dalla sua insaziabile avidità”. Ora, non v'è avversario politico, al pari di ogni seguace, che non riconosca al presidente del Consiglio un'insaziabile voglia: di soldi, di potere, di fama, di popolarità.
Da dove viene questa brama irrefrenabile, che l'ha fatto diventare l'uomo più ricco e più potente d'Italia, “superior” a tutti come il lupo della favola, e perché questa cupidigia ci porta proprio alla campagna d'odio di cui egli accusa i suoi avversari?
Infatti, se è vero che “odio” è parola troppo grossa in politica, dove i sentimenti servono gl'interessi, è piuttosto la “politica del rancore” quella che anima Berlusconi, e che i suoi seguaci più accesi, quelli che divorano il “Giornale” o “Libero”, istintivamente condividono e adorano.
Spieghiamoci con un esempio. Campione della politica del rancore è Richard Nixon, vicepresidente con Eisenhower negli anni '50 e poi presidente, dopo essere stato battuto da Kennedy, dal 1968 al 1974. Personaggio mefistofelico, shakespeariano, astuto e paranoico, capace di risorgere dalla polvere come una fenice politica, Nixon è il protagonista di un'acclamato saggio pubblicato in America dallo storico Rick Perlstein, “Nixonland”, in cui viene accusato di “avere spaccato l'America” con la politica del rancore.
Di che si tratta? Nixon, dice Perlstein, era “un raccoglitore ossessivo di risentimento”.
Di origini piccolo-borghesi, riuscì a entrare al Whittier College, in California, il cui campus era dominato dai “Franklins”, dal nome del club universitario a cui s'erano iscritti i rampolli della grande borghesia, progressisti e snob. Per risposta Nixon creò un club rivale, gli “Orthogonians” (più o meno quelli “ad angolo retto”), dove raccolse i suoi simili: studenti meno raffinati, socialmente insicuri, pendolari.
Aveva trovato la sua “maggioranza silenziosa”, che lo premiò eleggendolo, al posto di un “Franklin” vanitoso, a capo dell'associazione studentesca. Da lì alla Casa Bianca il viaggio politico di Nixon, un antisemita che in privato parlava come un carrettiere, avverrà sulle spalle della maggioranza rancorosa.
Non v'è chi non veda la somiglianza con Silvio Berlusconi, di cui infiniti biografi hanno messo in luce il complesso d'inferiorità verso la buona società milanese, a cui non era stato ammesso per nascita, il risentimento per la Confindustria, che non lo aveva mai preso sul serio, il desiderio d'espugnare il “salotto buono” di Mediobanca, che lo ricordava figlio d'un funzionario della piccola Banca Rasini. Così le battute volgari, le pacchianerie ostentate, le prostitute vantate sono strumenti dell'emancipazione dai "signori".
Ma non v'è anche chi non veda la lungimiranza politica: il popolo rancoroso, che invidia ma pure detesta la grande borghesia di cui Gianni Agnelli era simbolo, è molto più numeroso degli snob progressisti, siano economisti con la erre moscia oppure comunisti con il cachemere.
Ecco perché la politica del rancore di Berlusconi ha bisogno del vittimismo (“chiagne e fotte”, diceva di lui Montanelli), in cui i frustrati si riconoscono. Ed ecco perché il premier, dopo avere definito in ogni modo, perfino “coglioni”, coloro che non votano per lui, ora li accusa di alimentare una campagna d'odio.
Tutto si rovescia nel mondo del risentimento: se invidio dico che mi invidiate, se v'insulto dico che mi insultate, se nutro rancore dico che mi odiate..
Finora ha funzionato. Funzionerà? Probabilmente sì, perché la maggioranza silenziosa italiana perdona a Berlusconi molte debolezze – politiche, finanziarie, penali, personali - e molte di più ne perdonerà la sinistra, se sarà incapace di dare risposte alle insicurezze degli "Orthogonians" italiani, ma si limiterà a prendere in giro la canottiera di Bossi o le Noemi del primo ministro.
Purché l'eccessiva confidenza non faccia commettere a Berlusconi errori fatali: Nixon, il furbacchione che s'era fatto il nomignolo di “Tricky Dick”, scivolò alla fine sul Watergate: può essere per Berlusconi un modello, ma resta anche l'unico “lupus” della politica americana a essere stato cacciato con ignominia dalla Casa Bianca.
Il presidente del Consiglio ha usato una telefonata al TG1, ospitale come un "house organ", per condannare “la fabbrica di menzogne, di estremismo e anche di odio” che in Italia alimenta, a suo dire, gesti violenti e insani come quello subito da Benedetto XVI nella notte di Natale e, per agevole simmetria, quello a lui stesso inflitto, giorni fa, in piazza Duomo a Milano.
Naturalmente la disavventura del Papa, al quale Silvio Berlusconi, in mancanza d'altre consonanze, si sente affine, non ha nulla a che vedere con il clima politico italiano, perché l'assalitrice di San Pietro, una persona disturbata quanto quella che aveva ferito il premier, viene dalla Svizzera, dove non ci sono giudici politicamente motivati, complotti ai danni di magnati dell'informazione, sinistre ancora nostalgiche del comunismo, mafiosi che collaborano con la giustizia, e via elencando. Ma il fatto che le bugie abbiano le gambe corte, nell'odierna politica italiana così credulona, conta poco: attribuire al nemico le proprie intenzioni, cioè la “campagna d'odio”, è lo strumento numero uno della propaganda.
Da almeno duemila anni: per ricordarlo ci basta Fedro, il favolista, senza invocare il suo più celebre contemporaneo, insuperato narratore di parabole evangeliche.
“Superior stabat lupus, longeque inferior agnus”. In riva a uno dei più famosi torrenti della letteratura d'ogni tempo, scrive Fedro, il lupo era in alto mentre l'agnello stava molto più in basso. La sete li accomuna, ma il lupo ha soprattutto voglia d'attaccare briga: perché, chiede dall'alto, intorbidisci l'acqua che sto bevendo, “turbulentam fecisti mihi acquam”?
Com'è possibile, ribatte l'agnello, se l'acqua viene da te alle mie sorsate, “a te decurrit ad meos haustus liquor”? Già, la scusa dell'acqua non sta in piedi, ma il lupo, forte dei suoi mezzi, ne ha subito pronta un'altra: tu hai parlato male di me, “ante hos sex menses ”, sei mesi fa!
Ma neppure questa funziona: a quell'epoca, si trincera l'agnello, non ero neppur nato. Adesso basta con questi cavilli, “fauce improba incitatus”, sbotta il lupo: “Pater, hercle, tuus male dixit mihi”.
Per Ercole, allora è stato tuo padre a parlare male di me. E con un balzo salta sull'agnello e gli dà morte ingiusta, “iniusta nece”, offrendo a Fedro il destro per la morale: “Questa favola è scritta per gli uomini che opprimono gl'innocenti con falsi pretesti”.
Ora, questa favoletta morale fa al caso di Berlusconi non per l'eventuale morte di un innocente, visto che d'agnelli incolpevoli è assai carente la nostra povera Italia. La profonda verità sta in quell'inciso, “fauce improba incitatus”, che Fedro butta lì come motivazione recondita del lupo, “spinto dalla sua insaziabile avidità”. Ora, non v'è avversario politico, al pari di ogni seguace, che non riconosca al presidente del Consiglio un'insaziabile voglia: di soldi, di potere, di fama, di popolarità.
Da dove viene questa brama irrefrenabile, che l'ha fatto diventare l'uomo più ricco e più potente d'Italia, “superior” a tutti come il lupo della favola, e perché questa cupidigia ci porta proprio alla campagna d'odio di cui egli accusa i suoi avversari?
Infatti, se è vero che “odio” è parola troppo grossa in politica, dove i sentimenti servono gl'interessi, è piuttosto la “politica del rancore” quella che anima Berlusconi, e che i suoi seguaci più accesi, quelli che divorano il “Giornale” o “Libero”, istintivamente condividono e adorano.
Spieghiamoci con un esempio. Campione della politica del rancore è Richard Nixon, vicepresidente con Eisenhower negli anni '50 e poi presidente, dopo essere stato battuto da Kennedy, dal 1968 al 1974. Personaggio mefistofelico, shakespeariano, astuto e paranoico, capace di risorgere dalla polvere come una fenice politica, Nixon è il protagonista di un'acclamato saggio pubblicato in America dallo storico Rick Perlstein, “Nixonland”, in cui viene accusato di “avere spaccato l'America” con la politica del rancore.
Di che si tratta? Nixon, dice Perlstein, era “un raccoglitore ossessivo di risentimento”.
Di origini piccolo-borghesi, riuscì a entrare al Whittier College, in California, il cui campus era dominato dai “Franklins”, dal nome del club universitario a cui s'erano iscritti i rampolli della grande borghesia, progressisti e snob. Per risposta Nixon creò un club rivale, gli “Orthogonians” (più o meno quelli “ad angolo retto”), dove raccolse i suoi simili: studenti meno raffinati, socialmente insicuri, pendolari.
Aveva trovato la sua “maggioranza silenziosa”, che lo premiò eleggendolo, al posto di un “Franklin” vanitoso, a capo dell'associazione studentesca. Da lì alla Casa Bianca il viaggio politico di Nixon, un antisemita che in privato parlava come un carrettiere, avverrà sulle spalle della maggioranza rancorosa.
Non v'è chi non veda la somiglianza con Silvio Berlusconi, di cui infiniti biografi hanno messo in luce il complesso d'inferiorità verso la buona società milanese, a cui non era stato ammesso per nascita, il risentimento per la Confindustria, che non lo aveva mai preso sul serio, il desiderio d'espugnare il “salotto buono” di Mediobanca, che lo ricordava figlio d'un funzionario della piccola Banca Rasini. Così le battute volgari, le pacchianerie ostentate, le prostitute vantate sono strumenti dell'emancipazione dai "signori".
Ma non v'è anche chi non veda la lungimiranza politica: il popolo rancoroso, che invidia ma pure detesta la grande borghesia di cui Gianni Agnelli era simbolo, è molto più numeroso degli snob progressisti, siano economisti con la erre moscia oppure comunisti con il cachemere.
Ecco perché la politica del rancore di Berlusconi ha bisogno del vittimismo (“chiagne e fotte”, diceva di lui Montanelli), in cui i frustrati si riconoscono. Ed ecco perché il premier, dopo avere definito in ogni modo, perfino “coglioni”, coloro che non votano per lui, ora li accusa di alimentare una campagna d'odio.
Tutto si rovescia nel mondo del risentimento: se invidio dico che mi invidiate, se v'insulto dico che mi insultate, se nutro rancore dico che mi odiate..
Finora ha funzionato. Funzionerà? Probabilmente sì, perché la maggioranza silenziosa italiana perdona a Berlusconi molte debolezze – politiche, finanziarie, penali, personali - e molte di più ne perdonerà la sinistra, se sarà incapace di dare risposte alle insicurezze degli "Orthogonians" italiani, ma si limiterà a prendere in giro la canottiera di Bossi o le Noemi del primo ministro.
Purché l'eccessiva confidenza non faccia commettere a Berlusconi errori fatali: Nixon, il furbacchione che s'era fatto il nomignolo di “Tricky Dick”, scivolò alla fine sul Watergate: può essere per Berlusconi un modello, ma resta anche l'unico “lupus” della politica americana a essere stato cacciato con ignominia dalla Casa Bianca.
domenica 3 gennaio 2010
Qualunquismo e Potere di Marisa Corazzol
Il qualunquismo imperante con cui i più esprimono giudizi di politica interna ed internazionale è un preoccupante sintomo dell’atrofia cerebrale, mascherata da cultura, che il sistema consumistico e massmedialogico sta diffondendo nella società.
Il fatto che oggi tutti si sentano in grado di effettuare analisi ed esprimere giudizi sarebbe di per sé lodevole, almeno fino a quando si tratti di decidere la formazione della Nazionale di calcio.
Purtroppo a ciò non ci si limita e l’estensione di questa facoltà critica ad argomenti quali pace, guerra, alleanze, uso delle risorse, scelte economiche e politiche diviene perniciosa, giacché la somma algebrica di tali giudizi da parte degli affetti da atrofia concorre a formare quella “opinione pubblica” che va a pesare sugli esiti delle scelte finali.
Ciò non accadeva fino a cinquanta o cento anni fa (ed era peggio) in quanto la parte della popolazione che ragionava (purtroppo il più delle volte in modo egoistico) era piccolissima e la massa non era legittimata a pensare.
Ora nessuno può affermare che tra i due mali sia minore quello odierno, ma chiunque si renderà conto che la manipolazione del sentire medio da parte della tv, attraverso la presentazione mirata di certe realtà piuttosto che di altre, in fondo omologa i due diversi scenari.
Morale: la gente non sa pensare. Il semplice meccanismo di raccogliere i dati, analizzarli e poi sintetizzarli in un giudizio equilibrato, scevro da spirito di appartenenza, sembra essere ormai perduto.
Viviamo la cultura del presente, veloce, superficiale, immediato. Immagini e notizie ci bombardano come flash impazziti, rendendoci incapaci di riflettere e facendoci scegliere la parte più “empatica” e che più ci sembra coerente con i nostri interessi immediati, senza preoccuparci delle conseguenze a medio e lungo termine.
Due assunti costantemente ricorrenti mi hanno spinta a scrivere queste righe, perché sono l’icona di questo diffuso sistema di non-pensiero.
“Gli arabi hanno attaccato l’America l’11 settembre, provocando il più grande disastro della storia.
È logico e giusto che loro abbiano reagito in Afghanistan e in Iraq”.
“Dobbiamo essere riconoscenti agli americani: se non ci avessero liberato, sacrificando un milione di loro giovani vite, ora noi saremmo ancora sotto i nazisti”.
A questo punto già vedo la maggior parte dei miei pochi lettori alzare la mano, rossi di collera.
Sento chiaramente i loro pensieri: “ecco la solita disfattista antiamericana e comunista!”.
Vedo, con soddisfazione, che il qualunquismo persiste, e – se mi “consentite” – vado a spiegarmi.
Innanzitutto devo ancora “ringraziare” Emilio Fede che, in occasione della visita di Bush, liquidò il discorso che sto per fare con queste parole: “Non si capisce come mai c’è chi contesta il Presidente di un grande Stato amico che ci ha liberato e che ci assicura la Democrazia.
Del resto in tutto il mondo ci sono gli imbecilli.”
Grazie, “fido amico dei padrini”, ti restituisco “l’imbecille” e tiro innanzi.
Adoro una certa America.
Amo la California, l’aria che vi si respira. Amo la potenzialità che vi regna e che permette a chiunque di lavorare e di emergere. Amo “l’Americanità” degli americani, multietnica e multiculturale, ma che rispetta unanimemente i principi fondanti di quella democrazia. Amo i deserti dell’Arizona ed i grattacieli di New York. Amo Michael Moore e chi la pensa come lui.
Molti miei amici sono americani e sono anch’essi spietati critici di quell’America che io critico: quella provinciale, qualunquista, egoista, ottusa e assolutamente ignara della Storia e di quello che succede al di fuori del proprio giardinetto.
Quella dedita al consumismo più sfrenato, al cibo più insano e rozzo, ai pregiudizi più ottusi.
Che ha coltivato per duecento anni il razzismo e la xenofobia combattendo chiunque potesse insidiare il proprio privilegio di poter guidare un pick-up esagerato spendendo meno di un euro per un gallone di benzina.
Sgombrato il campo dalle “tifoserie” e dalle appartenenze, vado a spiegarmi e tenterò di dimostrare perché i due assunti di cui sopra contengono solo una parte della verità e meritano ulteriori riflessioni.
La riconoscenza non è una categoria della storia, ma dell’etica dell’individuo. La storia non è fatta dalla somma del sentire degli individui, ma di forze contrastanti che difendono ciascuna il proprio interesse ed il proprio potere. La politica è l’arte di armonizzare tali forze.
Giudicare i fatti storici in termini di “bene/male” è semplicemente incongruo, quindi applicare ad essa termini come la “riconoscenza” è un errore romantico. Più corretto sarebbe dire che in un certo momento storico due forze hanno avuto una coincidenza di interessi.
Coincidenza che dura per il tempo che dura: nulla quindi è dovuto quando essa cessa di incidere sul corso degli eventi.
Ci sono innumerevoli prove che la maggioranza dell’opinione pubblica americana, del Congresso, del Senato, fino a Pearl Harbour, fu del tutto contraria all’intervento in Europa a fianco degli inglesi.
Anzi bisogna riconoscere che larghi strati della finanza e dell’industria statunitensi fecero affari con i nazisti anche dopo l’invasione della Polonia, quando l’Ambasciata americana di Berlino era una fucina di business con la Germania.
Per evitare ulteriori romanticherie va detto che, contemporaneamente, le commesse dell’industria americana prosperavano con l’operazione “Rent & Loans” attraverso la quale gli Stati Uniti neutrali “prestavano” carri armati, aerei, navi e cannoni, prima agli inglesi, poi ai russi.
Occorre tuttavia riconoscere che la costante tendenza all’isolazionismo che aveva caratterizzato la condotta degli Stati Uniti fino a quel momento, perdurava nel sentire degli americani, che vedevano il problema europeo come cosa lontana ed estranea.
Fortunatamente per Churchill (e, in subordine, per noi come siamo adesso – e non per noi come eravamo allora, e cioè in centomila sotto “quel” balcone) alla Casa Bianca c’era un tal mr. Roosevelt che era dotato di grande ambizione, unita ad intuizione e senso della strategia.
Roosevelt aveva capito due cose:
• se Hitler si fosse impadronito dell’Europa e – soprattutto – della Russia, vincendo la guerra entro il 1942 – 43 e si fosse impadronito delle risorse petrolifere del Caspio e del Medio Oriente, entro il 1950 gli Stati Uniti avrebbero dovuto non solo combattere una guerra di proporzioni ben maggiori, ma soprattutto l’avrebbero dovuta combattere – per la prima volta nella storia – sul proprio suolo.
• se, al contrario, con un sacrificio relativamente basso, avesse aiutato gli inglesi ed i russi inviando in Africa ed in Europa i propri soldati, e non solo come aveva fatto fino ad allora i propri mezzi, non solo avrebbe vinto, ma soprattutto avrebbe assunto una leadership mondiale fino ad allora impensabile.
Chi conosce la storia sa perfettamente che fino all’inizio del periodo che è stato chiamato “guerra fredda” e che ha visto gli ex alleati fronteggiarsi per quarant’anni, il dominio del mondo era stato un’ “affaire” anglo-francese: fu l’intuizione di Roosevelt che portò gli Stati Uniti sul percorso che oggi li vede come unico leader globale.
Quindi Roosevelt iniziò un’azione, spesso sotterranea, che lo vide contrapposto al Senato, al Congresso e all’opinione pubblica. Tale azione si concluse solo quando i Giapponesi commisero “l’errore” di Pearl Harbour.
C’è chi sostiene che l’Amministrazione americana abbia fatto di tutto per provocare ed agevolare quell’errore e sollevare così l’opinione pubblica.
C’è chi sostiene le medesime cose riguardo all’11 settembre… Per concludere: la Storia per¬corre sentieri che sembrano improbabili, quando non misteriosi, con automatismi complessi e meccanici nei cui ingranaggi solo gli ingenui possono scorgere categorie a lei aliene come l’amicizia, la lealtà, l’etica o, appunto, la riconoscenza.
Lasciamo le visioni di quel tipo ad Emilio Fede e regoliamoci di conseguenza: giudicando in ciascun momento ed all’interno di ciascuno scenario se gli interessi di una parte coincidano o divergano da quelli di un’altra, se quello che a noi sembra “buono e giusto” trovi riscontro nel comportamento di coloro di cui stiamo giudicando l’azione, per associarci o dissociarci da ciò che stanno facendo.
Nella fattispecie, ciò che ha fatto il Governo “neo-conservative” statunitense nel tentativo di assicurarsi il mantenimento delle fonti energetiche ed il controllo degli oleodotti che le distribuiscono, nel suo tentativo di ostacolare il processo di inevitabile emersione di Cina ed India nei decenni a venire, non solo non è stato “buono e giusto”, ma soprattutto non ha coinciso con gli interessi dell’Europa e quindi con i nostri.
Dobbiamo tutti, invece, realizzare che la potenziale sostituibilità del dollaro con l’euro nel pagamento delle transazioni relative alle forniture energetiche sia stato il principale incubo dei sonni di Bush.
Il processo di spostamento ad Oriente dell’asse di influenza economica procede inesorabilmente e questo secolo vedrà inevitabilmente la Cina come protagonista.
Quindi svegliamoci dai sogni ed iniziamo a giudicare con correttezza di termini.
E la riconoscenza dedichiamola non “all’America”, ma solo a quelle legioni di ragazzi americani ignari che riposano sotto le croci bianche di cimiteri come quelli di Anzio e di Nettuno.
Ed anche a quegli oltre mille mandati a morire da un esaltato incosciente in terra mesopotamica.
Personalmente, ad uno ad uno.
sabato 2 gennaio 2010
le proteste degli italiani
stanca dell'abbandono dello stato!faccio il mio dovere!e lo stato deve fare il suo...Condividi
domenica 29 novembre 2009 alle ore 0.14
Il Canale della Vita: TOCCANTE LETTERA DELLA SIGNORA TONDI FORTUNA AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICANote di Il|Note su Il|Profilo di Il
TOCCANTE LETTERA DELLA SIGNORA TONDI FORTUNA AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICACondividi
lunedì 27 aprile 2009 alle ore 12.58
Illustrissimo Presidente della Repubblica,
mi chiamo Tondi Fortuna, sono una cittadina di Caivano, paese a Nord di Napoli.
Le scrivo in preda ad un profondo stato di depressione e smarrimento, dovuto alle tristissime vicende di cronaca di cui purtroppo siamo stati vittime e protagonisti, io e la mia famiglia.
Illustre Presidente, chi Le scrive è titolare di una piccola macelleria a conduzione familiare che da anni sostiene con modestia, ma anche con tanta dignità, la mia famiglia.
Ma ora proprio non ce la faccio più.
La microcriminalità ormai imperante nella nostra cittadina ci sta letteralmente ammazzando. Nell’agosto scorso, Illustre Presidente, un uomo a volto scoperto e a mano armata ha consumato la nona, e dico NONA, rapina nel mio negozio.
Nove rapine in meno di otto anni. Nove rapine, e una vita che mi stanno distruggendo.
Della mia storia, Egregio Presidente, si sono occupati i media nazionali e locali. Una storia di paura, angoscia e disperazione, iniziata otto anni fa, nel lontano 2000, con un furto che ci portò via prosciutti, salami e tutti gli altri prodotti di valore della nostra piccola attività, trascinando la mia famiglia nel vortice dei debiti, di cui ancora portiamo i segni sulla pelle.
Ma quello non sarebbe stato l’unico prezzo da pagare alla criminalità.
Ancora un dolore forte al petto mi stringe, quando penso ad una rapina subita sei anni fa: mia figlia Emma, incinta di sette mesi, con una pistola puntata alla tempia. Vedo ancora i suoi occhi terrorizzati, e provo la stessa stretta al cuore a ricordarlo.
La stessa stretta che mi provoca il pensiero del mio primo figlio, Antonio, e delle pallottole che stavano per ammazzarlo in un’altra rapina, questa del 2005. E questa rapina me lo ha portato via, lontano, perché da quel giorno Antonio, terrorizzato da quella “quasi morte” , volle andar via. Ora vive a Modena. E’ un emigrante il mio unico figlio maschio, Signor Presidente.
La stessa scelta che ha fatto la mia terzogenita Maria che, spinta dal marito impaurito, ha deciso di trasferirsi ad Arezzo, portando con se quei due splendidi nipotini che non mi vedo più girare intorno e crescere.
A pensarci ho una grande rabbia dentro. Non bastavano i soldi e la merce , Signor Presidente. Dovevano portarmi via anche i miei figli, i miei nipotini, l’unica gioia in fondo, per una umile e modesta nonna di provincia.
Dovrebbe conoscerli, Signor Presidente, i miei figli. Ragazzi perbene, tranquilli, che questo stato di cose sta trasformando in vittime. Mia figlia Anna, la più piccola, ha solo ventuno anni, e già si è vista puntare contro una pistola tantissime volte, perdendo presto l’innocenza della sua giovane età a vantaggio di un sistema criminale. Ora soffre di una forte crisi depressiva che, lentamente, insieme ad alcuni specialisti, stiamo provando a risolvere.
No, Illustre Presidente, tutto questo non è la trama di un film. Potrebbe sembrarlo, ma sono solo alcune delle tristi vicissitudini che ho dovuto subire e che ancora patisco , come testimoniano le denuncie che Le allego a questa mia lettera disperata.
Le guardi Presidente, le guardi. E forse potrà provare, o quantomeno immaginare il dolore patito. Un dolore che si fa ancora più forte se penso all’indifferenza e al menefreghismo di tutte quelle istituzioni che avrebbero dovuto tutelarmi, garantirmi o quantomeno ascoltarmi.
Io scrivo a Lei, Signor Presidente, in quanto Capo dello Stato e in quanto garante della Costituzione e di tutti i cittadini onesti, come lo è la sottoscritta, che da sempre ha rispettato le leggi e che sempre ha creduto di vivere in uno stato civile.
Ma ora, Presidente, questa fiducia mi sta mancando. E mi manca perché tutti, dal primo cittadino del mio paese, dai consiglieri ai deputati di tutti i livelli, che anche io ho eletto partecipando al voto, mi hanno abbandonata. Nessuno, escluso alcuni giornalisti che di certo non hanno un potere effettivo, mi ha e mi sta aiutando.
A volte me li immagino già tutti presenti al nostro funerale, come è già successo a qualche altro collega. Penso al povero tabaccaio di S. Antimo, ucciso per poche centinaia di euro.
Mi dica Lei, Signor Presidente, che cosa devo fare?
Mi dia Lei un buon motivo, una buona ragione per credere ancora nello Stato, per credere che la criminalità non sia la padrona assoluta della nostra città, e che sia ancora giusto rispettare le Istituzioni.
Sono una donna semplice, Presidente, e semplice è la mia famiglia. Non credo di chiedere tanto, vorremmo solo lavorare e vivere in pace. Vorrei non vivere continuamente nel terrore che qualcuno dei miei familiari possa, un giorno o l’altro, perdere il dono più bello, quello della vita, in questa piccola macelleria di Via Clanio.
Confido in Lei, Signor Presidente. Confido ancora nella massima carica dello Stato.
Non mi abbandoni .
Non voglio più sentirmi il commerciante più rapinato d’Italia, ma cittadino libero e felice di vivere, di lavorare e di rispettare le leggi della nostra Repubblica.
Con Illustre rispetto
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Attilio Modugno
Oh Minzolini dalla crapa pelata
non riesci a tenere la bocca tappata
ogni volta che parli spari una cazzata
sarebbe stato meglio che la lingua
t' avesser mozzata
venerdì 1 gennaio 2010
non sparate sulla croce rossa.E' pericoloso!
Il maresciallo capo Vincenzo Lo Zito,
di stanza ad Assisi, vuota il sacco e
lancia accuse “Ho denunciato irregolarità e sono stato trasferito”
La denuncia fa discutere, in città la vicenda finita in mano alla
Procura della Repubblica
ASSISI - Trasferito al XIII° centro di mobilitazione di Assisi
per "incompatibilità ambientale",
ma in realtà quasi come una 'punizione': è la denuncia del
maresciallo capo Vincenzo Lo Zito, della Croce Rossa Italiana
corpo militare, che è "attualmente in servizio presso il Comitato
Regionale Abruzzo dell'Aquila con incarico di funzionario
amministrativo qualifica C2", ma che, "per aver più volte
denunciato i fatti e aver tentato di garantireuna corretta
amministrazione dei soldi pubblici", è stato trasferito "più
volte in altre sedi con un esoso danno all'erario".
In particolare, i fatti denunciati da Lo Zito con regolare
esposto alla Procura della Repubblica e alla Corte dei Conti
di competenza sono "presunte irregolarità ai danni del comitato
Cri regionale Abruzzo, compiute da parte del presidente, che
con carica esclusivamente di presidente regionale e quindi,
né di direttore né di funzionario amministrativo, firmava
mandati di pagamento e quant'altro avendo anche la firma
depositata in banca, contrariamentea tutti i regolamenti
di amministrazione pubblica che prevedono che tali compiti
spettino solo al direttore regionale.
Lo stesso direttore aveva lamentato le irregolarità alla
banca dove era depositato il C/C del comitato regionale,
ma la stessa presidentessa ha continuato a firmare
unitamente a un'altra dipendente, che non aveva nessuna
qualifica per la firma ed era assunta a tempo determinato.
Tali firme violano due principi essenziali, uno che il
direttore era presente in sede,la seconda non aveva il
requisito essendo precaria.
Ma la cosa più grave - conclude Lo Zito - è che oltre a
questi evidenti abusi, nei miei confronti è stata attuata
una vera e propria guerra,con tanto di continui trasferimenti su indicazione della stessa presidentessa regionale Cri, la quale addirittura
come motivazione ha addotto il fatto che io le impedissi
di svolgereil suo incarico; pertanto, sono stato trasferito
per 'incompatibilità ambientale' addirittura fuori regione,
ossia al XIII° Centro di Mobilitazione di Assisi".e capperetto se
uno da fastidio ad una
LETTA..................
Era il 4 Agosto 2008 e nel Comitato Centrale della Croce Rossa
Italiana regnava il clima di ferie.. attività d'ufficio ridotta
e Dirigenti al meritato riposo.......
Ma ecco che una persona ligia al dovere con spiccato senso
di abnegazione al lavoro assume l'incarico di facente funzioni
del Direttore Generale è l'Avv. Francesco Rocca, Capo
Dipartimento del Servizio Socio Sanitario ( credo già
consapevole) che diventerà il Nuovo Commissario della
Croce Rossa Italiana che appoggia la richiesta
del Capo del Personale( Dr. Nicola Niglio)di " messa
in Disponibilità " immediata (ASSURDO) e che tale
richiesta nasce dall'esigenza di evitare gravi
pregiudizi al REGOLARE svolgimento dell'attività
lavorativa del Comitato Regionale Abruzzo...e firma
l'ordine assurdo di togliere immediatamente il
Maresciallo Lo Zito dal Comitato Regionale Abruzzo
e di
sollevarlo da ogni assegnazione ai compiti civili ,
ovvero non avere più niente a che fare con la
gestione (fai da te ) della Presidente
Maria Teresa Letta..
Ordinerà, sempre il futuro Commissario Rocca,
una Ispezione per accertare gli illeciti da me
rilevati e che i Revisori dei Conti dopo il pranzo
con la Presidente avevano sospeso..e chi farà questa
Ispezione il 6 Agosto?
Si presenterà negli uffici del Comitato Regionale
Abruzzo il suo Capo Ufficio del Dipartimento Socio
Sanitario.. Dr Leonardo Carmenati che in seguito
diventerà:
Capo del Dipartimento stesso.....
Direttore Regionale Abruzzo..
e sostituto del Direttore Generale...
..che guarda caso, l'ispezione, si risolverà.......
con un "nulla di fatto "
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